Possibilità di incontrarsi…al tempo del coronavirus
Se dovessi tratteggiare con un’immagine lo sfondo che caratterizza questo tempo, ricorrerei all’idea di una guerra ottocentesca, come le campagne napoleoniche così come ci vengono narrate da Tolstoj in Guerra e pace: c’è chi combatte in prima linea, chi nelle retrovie, chi detiene il comando, chi si ritrova a fare la sentinella o lo stratega.
Io mi assimilerei ad uno di quei messaggeri a cavallo, che tenta di diffondere un messaggio, un pensiero, magari udito da altri, in grado di dare sostegno, di aprire nuove possibilità di risignificare ciò che stiamo vivendo.
In un contesto così ampio e globalizzato lo scenario cui assistiamo fa emergere vissuti ed emozioni mutevoli, intensi e diversissimi non solo in relazione al momento, ma anche alla posizioni di ciascuno in questo sfondo. Difficile circoscrivere con parole o categorie standardizzate la variegata gamma di reazioni e di sfumature emotive al fluire di questi eventi.
Possiamo immaginare livelli o angoli di visuale diversificati.
Partendo dall’ottoca individuale, se volessimo avvicinarci ai vissuti di chi si trova in prima linea, forse percepiremmo l’intensità dell’angoscia, o la profondità del dolore o la confusione mentale di chi si sente travolto da situazioni gravissime: penso ai sanitari che affrontano ogni giorno l’emergenza del soccorrere e fornire cure, senza a volte sentirsi sufficientemente equipaggiati per proteggersi dai rischi; intuiremmo l’angoscia di chi ha contratto l’infezione e ne fronteggia i sintomi, più o meno avvertendo la paura della morte, la disperazione o l’estremo sforzo per lottare e aggrapparsi alla vita. Pensiamo anche a chi sta attraversando il dolore della perdita di un proprio caro: un lutto che è privato del contatto con il corpo, che è sottratto agli abbracci, alla vista, all’ultimo saluto, un dolore lancinante che chiede di essere accolto e trasformato.
Per chi come tanti di noi si trova ad occupare un posto nelle retrovie, forse avverte piuttosto l’impatto dell’onda d’urto come un rombo talora soffocato, talvolta più assordante.
In questa fase sono crollate le nostre abitudini, le routine che costruivano il ritmo e il fluire della quotidianità per qualcuno improvvisamente, per altri in modo più graduale.
In termini gestaltici parliamo dello “scioglimento di ciò che è scontato”,[1] che come tale libera energia e si associa al senso di euforia manifestato da alcuni nel sentire di poter disporre di un tempo libero maggiore, di poter lasciare spazio per dedicarsi ad alcune passioni, come la lettura, l’attività fisica, il giardinaggio. Eppure, accanto a tutto questo, inesorabilmente spunta l’angoscia legata allo sgretolarsi di ciò che ci forniva sicurezza, la perdita di tanti rituali o di quel senso di parziale chiusura rispetto alle domande esistenziali che riguardano la nostra sopravvivenza e quella dei nostri cari: domande che ora affiorano e suscitano timori o comportamenti di controllo e accudimento.
Se ci spostiamo al livello sistemico e diamo uno sguardo entro le mura domestiche, questa forzata convivenza ininterrotta porta in luce la rischiosità delle relazioni intime: ciò diventa per alcuni l’occasione di gustare la presenza di figli adolescenti o la possibilità di un tempo maggiore per il dialogo; per altri si trasforma in una condizione coatta che esaspera conflittualità sopite nella coppia o l’esperienza di solitudine in chi vive da solo o il maggior carico per chi si trova ad occuparsi di un disabile senza il sostegno di altre realtà, ora necessariamente sospese.
Ad un livello ancora più ampio, quello della collettività, questo scenario ci permette di osservare una trasformazione del modello relazionale di base: come se citando Giovanni Salonia[2] stessimo oltrepassando l’epoca della società liquida per ritrovare un noi, dopo l’espressione e l’esaltazione delle singole individualità che aveva caratterizzato la post-modernità. L’angoscia prodotta da questa pandemia ci riporta a quel sentirci “gettati nella vita”, a quel percepirci estremamente fragili e incapaci di proteggerci: tutto questo ci chiede di riposizionarci, di ritrovare ciò che ci fa stare in equilibrio, di dare spazio alle nostre emozioni. L’emergere di un noi ci richiama a fare un passo indietro rispetto alle esigenze di autoaffermazione e ad assumerci la responsabilità dei comportamenti che tutelano la collettività: si tratta di una nuovo modo di orientarsi che può far crescere nuove consapevolezze o stili relazionali. Ora il bisogno di una collettività omogenea e orizzontale
appare condizionato dall’emergenza, come in tempo di guerra e quando prevale l’entusiasmo delle folle che si riconoscono nel condividere immagini e contenuti virali. Forse la vera sfida sta nel far calare questa opportunità perché diventi occasione di un contatto più profondo con sé stessi e con l’altro: un darsi il tempo di ascoltare il proprio corpo, un fare memoria di esperienze complicate già superate in passato, un cercare nutrimento in ciò che allarga il cuore e la mente, un ricercare una comunicazione affettuosa e intensa con chi ci sta accanto o con chi possiamo raggiungere scrivendo, telefonando, un ascoltare e un narrare se stessi per ritrovarsi insieme forse più fragili, ma anche più autentici: mirabile esempio troviamo nell’immagine che riproduce il dipinto di Jacques Hérold, La Rencontre (1936 The Berardo Collection, Lisbon, Portugal.), in cui i corpi dell’uomo e della donna, pur se composti di gusci e di conchiglie, trovano un nuovo modo di incontrarsi che riempie di luce il paesaggio circostante.
[1] Michela Gecele, Gianni Francesetti, La cura e la polis al tempo del coronavirus, http://www.psychiatryonline.it/node/8455, 7 marzo 2020
[2] Giovanni Salonia, Il coronavirus: la fine della società liquida, https://www.gestaltherapy.it, 20 marzo 2020